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Musica e musicisti nei lager nazisti. Il podcast con le voci di Moni Ovadia e Roberto Franchini

Sembra impensabile, ma i campi di sterminio nazisti dove furono uccise e torturate migliaia di persone, avevano, ognuno, una propria colonna sonora. Ad Auschwitz, Terezin, Buchenwald e Dachau le SS imponevano ai prigionieri di accompagnare le torture e le marce verso il lavoro o, ancora peggio verso le camere a gas, con brani strumentali. Le piccole o grandi orchestre allestite nei lager servivano per intrattenere gli aguzzini nel fine settimana o per sostenere la propaganda nazista. Nei campi di sterminio si incontrarono musicisti di grande valore che riuscirono a produrre opere di elevata qualità.

Una di questi fu Anita Lasker-Wallfisch, che suonava il violoncello nell’orchestra di Auschwitz, in un piccolo gruppo diretto da Alma Rosé. “Pur con la testa rasata e un numero sul braccio ero una violoncellista” scrisse nel suo libro, dopo che sopravvisse al lager. La musica non le aveva fatto perdere la sua identità. Al contrario, l’aveva aiutata a salvarsi. Non per tutti fu così. Il podcast “Ero una violoncellista“(qui il link) realizzato da Francesca Mezzadri e Margherita Giacchi (Servizio informazione e comunicazione dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna) che racconta le storie dei musicisti come Anita nei lager: di chi riuscì a salvarsi, di chi, al contrario non ce la fece. Di chi non si perdonò per essersi salvato.

Il podcast raccoglie le musiche e i brani suonati, e con Roberto Franchini, autore del libro “L’ultima nota”, e Moni Ovadia, ricostruisce il ruolo della musica nell’epoca della Shoah. “La musica nei campi di concentramento scandiva i tempi di vita e di lavoro dei prigionieri e delle guardie. L’orchestrina era insieme testimone e vittima” spiega Moni Ovadia.

“Quando i campi dei nazisti erano riservati solo agli oppositori politici, la musica era nascosta – racconta Franchini – Più avanti furono gli stessi direttori dei campi a permetterla, addirittura a sceglierla – ogni campo aveva la sua “colonna sonora”-  e a diffonderla dagli altoparlanti per gli appelli, le partenze, i ritorni e per le esecuzioni capitali. Il sabato e la domenica serviva a stemperare la tensione nelle guardie. Addirittura, si organizzavano i cabaret con le canzoni impedite ai cittadini tedeschi”.
Dai Ghetto Swingers e dal jazz del campo di Terezin, ai cabaret con Kurt Gerron de “L’angelo azzurro”. Dall’orchestra femminile di Auschwitz, alla Canzone dei soldati della palude, che divenne poi simbolo dei canti di resistenza: all’interno del podcast è possibile ascoltare le musiche e le storie che le accompagnavano.

“Ma come si faceva a mettere una musichetta mentre si impiccava?”, si domanda Ovadia che cerca di capire che ruolo abbia assunto la musica per gli ufficiali dei lager. “Riuscire a godere di una canzone prodotta da qualcuno che vuoi annientare… forse per i nazisti era rassicurante”. “Per i prigionieri la musica ebbe invece effetti complessi e contradditori – continua Franchini-.  Se fu di aiuto per qualcuno, per altri fu una tortura”. E poi c’è chi si salvò grazie alla musica. Ma quando tornò venne guardato con rimprovero. “Perché tu sei sopravvissuto e gli altri sono morti?”. La musica ebbe sulle spalle anche questa responsabilità.

Roberto Franchini, giornalista, scrittore e saggista, si occupa da anni di storia della musica. È stato direttore dell’Agenzia di informazione e comunicazione della Regione Emilia-Romagna, presidente della Fondazione Collegio San Carlo di Modena e del Festival della filosofia.

Il podcast “Ero una violoncellista” si può ascoltare sui canali Spreaker e Spotify dell’Assemblea. In redazione Francesca Mezzadri e Margherita Giacchi.


Assemblea

26 Gennaio 2024



Fonte: https://cronacabianca.eu/feed/


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